sabato 23 luglio 2016

Le Petit Prince


"Growing up is not a problem. Forgetting is."


"Gli adulti non capiscono mai niente da soli ed è una noia che i bambini siano sempre eternamente costretti a spiegar loro le cose": un bel problema dover diventare grandi, piombare in un mondo fitto di responsabilità dove vorresti essere finalmente libero di trovare il tuo posto nel mondo e invece tutti si aspettano da te la realizzazione di quel progetto insaziabile in cui nulla sembra essere mai abbastanza, il grande piano di battaglia a cui è opportuno iniziare a lavorare alacremente sin da ragazzini in nome di un futuro che verrà, volenti o nolenti, per inserirci nella grande macchina della vita e del lavoro e chiamarci adulti una volta per tutte. 

La vera tragedia non è però tanto crescere, assecondare il tic tac che trasforma i giorni in anni e gli anni in decenni facendoci abbandonare lentamente le matite colorate e i giocattoli per le cravatte, i tailleur e i daily planner, quanto finire per dimenticare la leggerezza dell'animo fanciullesco che era in noi e che sapeva portarci dovunque, senza bisogno di spiegazioni, in una nuvola di fantasia animata dalla speranza e dalla voglia di fare e di scoprire; la vera tragedia è annichilire nella catena di montaggio e ingrigire piano piano, senza più memoria delle piccole semplici cose meravigliose che ci davano la forza di lottare e di vivere, lasciandosi risucchiare dal sistema senza avere più nulla da donare a noi stessi e agli altri.

Un messaggio che Il Piccolo Principe di Mark Osborne non si cura di sottintendere neanche un po', scegliendo un canovaccio essenziale e collaudato per assicurarsi che gli adulti, seduti accanto ai loro figli e convinti di aver dato loro un film a misura di bambino, abbiano sentito forte e chiaro e si siano fermati ad osservare senza fretta le stelle del cielo almeno qualche minuto dopo la visione.

martedì 12 luglio 2016

Anton.


Ormai sta diventando una triste abitudine: passi lunghi periodi senza scrivere perchè urge portarsi avanti con altre cose più grevie ma necessarie e poi arriva lei, la morte eccellente dinanzi alla quale devi costringerti a fermarti un momento a rimettere insieme i pensieri, per quanto bene abbiano provato a nascondersi. 

Un'altra morte eccellente per questo malinconico 2016, anche se non quanto quelle recentissime di Abbas Kiarostami Michael Cimino, registi fondamentali che però devo confessare non conosco ancora abbastanza per scriverne un panegirico ed essere sinceramente dispiaciuta(si, mi sto già preparando per la walk of shame con la suora rugbista di Game of Thrones): Anton Yelchin se n'è andato via in fretta, ventisette anni finiti in un incidente assurdo che sembra uscito dritto dritto da un film della serie di Final Destination, la promessa di una vita fortunata beffata da una morte annoiata in una domenica di Giugno.


Una carriera ancora acerba, fatta di piccoli ruoli in grosse produzioni come il riavvio del Franchise di Star Trek, dove le sue origini russe avevano aggiunto una punta di gradevolezza in più alla sua performance nei panni di Pavel Chekov, e parecchio cinema indie: non un volto molto conosciuto, non un Heath Ledger che aveva già annunciato la sua grandezza con una prova monumentale in grado di nutrire la leggenda. Perchè allora mi fa così male? Per quello che avrebbe potuto essere e non sarà mai, certo, ma anche per altri motivi molto meno confezionati e assai più egoistici: vedi un film ancora ragazzina e ti capita di identificarti e affezionarti tanto al protagonista, pensi che anche quell'attore bambino con cui ti togli appena qualche anno crescerà e sai che ogni tanto potrai sbirciare nel suo futuro e che lui starà lì, da qualche parte, come te, finchè ogni cosa non finisce accartocciata e asfissiata in pochi spietatissimi minuti, e poi più nulla.


Avevo conosciuto per la prima volta Anton in Cuori in Atlantide di Scott Hicks (2001) e gli avevo voluto bene subito, una testolina riccia dallo sguardo malinconico e dolce nei panni di un ragazzino undicenne con la passione per la fotografia e la forza sovrumana di un'infanzia di cose semplici e grandi sogni, nella monotona Provincia Americana degli anni 60'; un ruolo con cui è impossibile non identificarsi almeno un po' e che mi è rimasto nel cuore (spuntarla contro Sir Anthony Hopkins in così tenera età non era cosa da poco), quello del piccolo Bobby Garfield, proprio come il protagonista di Like Crazy di Drake Doremus, che con ricci più pacati e l'altezza dei vent'anni lo vedeva misurarsi nel 2011 ormai adulto col racconto di un ingestibile amore a distanza.


È vero, personaggi e attore si confondono e non si capisce più dove inizi uno e cominci l'altro, ma in fondo è così quando un amico che non vedi da tanto tempo muore giovane: i ricordi belli che abbiamo si mescolano al resto e ti restano solo i frame migliori, quelli che si è condivisi insieme, ridendo piangendo e facendosi compagnia, laddove si poteva, laddove si doveva, col tempo che rimaneva dalla quotidianità che puntualmente ti trascinava altrove, anche con le migliori intenzioni di restare in contatto e non perdersi mai.


In Cuori In Atlantide il Ted Brautigan di Anthony Hopkins dice che quando si cresce il cuore non può evitare di spezzarsi in due, amareggiato da tutto il dolore e le delusioni che è costretto a vedere e a sopportare: Anton oggi non c'è più e il mio cuore si è spezzato un altro po', lasciando un'altra impronta senza proprietario sul sentiero di chi cresce e corre con te facendoti sentire al sicuro e meno solo per la sola ragione di esistere, molto lontano, da qualche parte.



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