"There's nothing to forgive."
Una sola parola, affidata con gli occhi rossi di pianto ad una moglie ormai sfiorita e a due figli lasciati bambini e cresciuti senza padre: "perdonatemi" dice Solomon Northup, nero nato libero nello stato di New York, una volta tornato da quella famiglia a cui era stato portato via con l'inganno per essere ridotto in schiavitù dall'economia di un Sud che insisteva nel fare della compravendita dell'essere umano la sua arteria di sostentamento; una richiesta di quelle che non ti aspetti, il bisogno di fare ammenda per un'assenza durata 12 interminabili anni e per aver rotto la promessa fatta a sè stesso di non accontentarsi di sopravvivere in cattività anno dopo anno, ma anche un monito per una Nazione intera che non ha ancora smesso di espiare le sue colpe e prova a usare il cinema, strumento divulgativo per eccellenza, per educare ed educarsi.
Che nell'era di Barack Obama stiano fioccando i film dedicati al tema della schiavitù e del razzismo negli States non è certo un caso, ma laddove il momento è propizio per aprire un vaso di Pandora tenuto nascosto troppo a lungo è difficile affrontare simili memorie senza patinature retoriche: con Twelve Years A Slave( in Italia, 12 anni schiavo), tratto dalla autobiografia che lo stesso Solomon Northup scrisse poco tempo dopo la sua liberazione, Steve McQueen opta invece per un'estetica durissima che non lascia spazio all'immaginazione, illustrando con dovizia un diario del dolore pronto a rimandare indietro tutte le lacrime a colpi di frustate e a spargere sale su una ferita già bruciante.