"I would draw some of the great tales in fullness, and leave many only placed in the scheme, and sketched. The cycles should be linked to a majestic whole, and yet leave scope for other minds and hands, wielding paint and music and drama. "(J.R.R. Tolkien, Letter no. 131)
Nell'era degli Effetti Speciali impossibili e di una terza dimensione sempre più luminosa e immersiva, riuscire a compiacere gli occhi degli spettatori giunti in sala con una visione che valga un investimento di tempo e denaro non indifferente è facile, ma varcare il punto di saturazione lo è altrettanto: cosa rimane allora della meraviglia, di quel brivido che ti scorre lungo la schiena e che ti fa saltare dalla poltrona dov'eri comodamente seduto facendoti sentire l'essere più piccolo del mondo, dei fotogrammi che scorrono sullo schermo risucchiandoti al di là della barriera senza che tu ne accorga per poi riportarti indietro, alla fine del film, frastornato e incredulo ma con le immagini di un nuovo, magnifico panorama di immagini scolpito nel cuore e nella mente? Se c'è in questo momento un blockbuster in grado di preservare, proteggere e difendere tali preziose e uniche sensazioni, quello è il secondo capitolo della Saga de Lo Hobbit firmato da Peter Jackson.