"Do You think I should do a human interest story?"
è il 1954 quando Anthony Lee atterra per la prima volta negli States insieme ai genitori adottivi: i suoi 3 anni, protetti solo da uno stretto cappottino e da un aereo giocattolo abbracciato gelosamente, dovrebbero essere troppo pochi per salvare intatta la memoria di quel giorno e per comprenderne a pieno il significato, ma lo sguardo del bambino sembra suggerire diversamente; serio, contrariato, quasi consapevole di aver dovuto rinunciare alla sua Irlanda e a una madre che gli sarebbe mancata per il resto della vita il piccolo Anthony è rimasto lì, prigioniero per quasi cinquant'anni di quella fotografia in bianco e nero scattatagli all'arrivo in aeroporto, nell'attesa che il libro scritto dall'ex giornalista della BBC Martin Sixsmith (The Lost Child of Philomena Lee, pubblicato nel 2009) raccontasse finalmente la sua storia.
Il racconto di come Anthony Lee sia diventato Michael Hess e di come Philomena, la mamma diciannovenne che l'aveva perso per colpa di un collaudato sistema di adozioni gestito da una chiesa cattolica bigotta e intollerante, sia riuscita a mettersi sulle sue tracce aveva un potenziale drammatico tanto elevato da rendere auspicabile una trasposizione cinematografica, ma senza una regia dalla mano ferma e una sceneggiatura ben calibrata forse avremmo avuto soltanto un'altra storia strappalacrime perfetta per un passaggio televisivo pomeridiano: diretto da Stephen Frears e scritto da Steve Coogan e Jeff Pope Philomena prende le distanze dalla categoria giocandosi la carta dell'emotività con aplomb tipicamente british, grazie a uno script capace di toccare le corde giuste dosando con cura il tasso zuccherino.