sabato 6 gennaio 2018

Wonder Wheel


"When it comes to love we all turn out to be our own worst enemy."

La vita è una tragicommedia dal finale irrisolto in cui siamo attori e spettatori, prigionieri di ruoli troppo ben interpretati e unici veri responsabili della nostra infelicità e caduta: Dio, le Parche e il Fato potranno anche metterci lo zampino e fare rimbalzare gli anelli sulla balaustra giusta al momento giusto, ma la macchina non si metterebbe mai in moto se ogni nostra azione non avesse una conseguenza e ogni sincera volontà di cambiare non fosse sciacquata via con grande facilità, vinta da una marea di nevrosi e tormenti nella quale forse non sguazziamo poi così male.

Nonostante l'età avanzata e una produttività inarrestabile quanto pericolosa per la qualità stessa del lavoro (un film all'anno sarebbe uno standard difficile da mantenere per qualunque regista più fresco) Woody Allen sa bene quale storia vuole raccontare e come raccontarla, trovando ancora una volta un modo stimolante di rappresentare il dramma in più atti che l'umanità non smette di recitare dalla notte dei tempi e che con l'età sembra occupare con sempre maggiore insistenza i suoi pensieri: assecondando il monito del protagonista del suo precedente Cafè Society che con un sorriso di rassegnazione si riferiva alla vita come a una commedia scritta da un sadico autore, a dare cuore e anima a Wonder Wheel( in Italia, La Ruota delle Meraviglie) è il teatro coi suoi trucchi e meccanismi più amati e familiari, sotto le luci del palcoscenico vintage di giostre sgangherate e vestiti sgargianti della Coney Island degli anni 50', per mettere in scena il fallimento di una donna che per nevrosi e mal di testa non può che rivaleggiare coi personaggi alleniani migliori.


Un narratore invadente e opportunamente silenziato per lasciare il pubblico libero di trarre da solo le proprie conclusioni sugli eventi, una solare ninfetta facile a sacrificarsi sull'altare della gelosia, un marito non malvagio ma zotico e alcolizzato, un ragazzino ossessionato dal fuoco senza un apparente perché se non quello di creare scompiglio, o cercare attenzione da una madre e da un intreccio che vorrebbero al più presto dimenticarlo: tutti entrano ed escono dalla scena seguendo come da copione e con una precisione da teatro greco, mentre la fotografia di Vittorio Storaro punta su di loro la luce dei suoi riflettori dai colori saturi e intermittenti; un'alternanza di aranci, rossi e azzurri, l'irrealtà meravigliosa che respira nell'umore lieto o devastato dell'unica vera protagonista, una Kate Winslet fragile e appassionata che pagherà la sua incapacità di fare pace con gli errori del passato perdendo del tutto il contatto con la realtà e con la felicità che questa avrebbe forse potuto offrirle.

D'altronde, se i sogni sono solo sogni, quale destino dovrebbe attendere tutti quelli che non sanno mettere un freno alle loro fantasie imparando a convivere con la malinconia di ciò che è stato e che non sarà mai? La tragedia di uno sguardo che si spegne e inizia a fissare il vuoto che lo attende, giorno dopo giorno e un mal di testa dopo l'altro, nell'attesa che cali il sipario.


4 commenti:

  1. il trucco è vederlo al massimo della nevrosi, così ci si sente in compagnia e si empatizza :P

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  2. Da persona che ultimamente si è scoperta nevrotica (colpa non mia, giuro), da laureato in Letteratura teatrale, ho gradito le atmosfere, la scrittura rigorosa che scimmiotta un po' Williams, anche se non meraviglia, questa ruota.
    Però, tra Storano e una Winslet scontatamente brava, non posso lamentarmi. Presto ne scribacchierò.

    Ps. Ti ho scoperto solo oggi, mea culpa, grazie all'ospitata su Pensieri Cannibali e White Russian. Complimenti. :)

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    1. Grazie mille! Spero di riuscire a essere un po' più costante in futuro, se no Cannibal e Ford mi rimproverano :P

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