"They'll either want to kill you, kiss you, or be you."
Chiudi il franchise, sdoppia il franchise: il mantra partito dai film di Harry Potter che ha contagiato a catena tutte le saghe per ragazzi e non solo ha colpito come previsto anche l'ultimo libro della serie di Hunger Games, diviso in due capitoli destinati l'uno a distanza di un anno dall'altro, con buona pace dell'attesa degli spettatori non lettori e degli stessi fan più accaniti dei romanzi: una serializzazione su larga scala che ormai domina il cinema contemporaneo e che abbiamo imparato ad accettare, mostrando un sorriso amaro addolcito solo dalla prospettiva di poter ritrovare in sala storie e personaggi in grado di accompagnarci a lungo e dai quali abbiamo grosse difficoltà a separarci, ma che mette a dura prova il valore intrinseco di una pellicola nata per contenere solo la prima metà del racconto che si appresta a portare sul grande schermo.


Se per sostenere il volto benevolo del regime il caro vecchio Caesar Flickerman( uno Stanley Tucci come sempre impomatato e lucidato quanto basta) può avere nel suo salotto nientemeno che un Peeta Mellark soggiogato e psicologicamente trasformato dalle torture ripetutamente inflittegli, per vincere la Guerra della Propaganda i ribelli non possono accontentarsi di mettere sotto i riflettori la loro preziosa Ghiandaia Imitatrice: più importante dell'esistenza del simbolo stesso, del carisma di Katniss e della sua straordinaria popolarità fra i deboli e gli oppressi, è la presenza di montatori e registi esperti in grado di vendere e diffondere un prodotto più sensazionalistico, galvanizzante e commovente di quello proposto dai canali concorrenti, realizzando riprese in location e consacrando l'eroina fiammante e arrabbiata che le folle desiderano vedere.
Un ritornello tristemente conosciuto, che si allontana dal consolatorio terreno della realtà alternativa e ci sbatte in faccia un mondo assorbito dall'uso della comunicazione collaterale, deciso a vincere le sue battaglie postando proclami su twitter e youtube e ad alterare l'umana percezione del reale spingendo di gusto sul pedale del pietismo di massa; un nodo che si stringe forte, intorno al collo dell'America che è stata e che potrebbe continuare ad essere, intonando con The Hanging Tree un canto della rivolta da brivido che riecheggia con coscienza il lamento degli schiavi delle vecchie piantagioni degli States.

A suo agio negli scenari post apocalittici sin dai tempi di I am Legend, l'ormai veterano Francis Lawrence dirige una pellicola che alterna pochi ma tesissimi scatti d'azione a un lunghe ma efficaci pause contemplative rivolte non solo ai dubbi dei protagonisti ma anche alla sofferenza e alla furia del popolo dei Distretti, decimato dei suoi figli ma mai sconfitto nello spirito; il tempo dei giochi di sangue è finito, la lotta per la vittoria reclama una libertà che vale più della vita stessa e la nostra ansia di proseguire sull'intelligente cammino tracciato da Suzanne Collins resta immutata: ciononostante, attendiamo ancora con ansia il giorno in cui la macchina di Capitali che governa l'Industria cinematografica la smetterà finalmente di frustrare le nostre storie, stiracchiandole oltremisura perché non possano raggiungere un epilogo naturale e necessario e abbandonando gli spettatori in un limbo faticoso e esasperante.
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