domenica 19 marzo 2017

Frantz


"Les sanglots longs
Des violons
De l'automne
Blessent mon coeur
D'une langueur
Monotone.
Tout suffocant
Et blême, quand
Sonne l'heure,
Je me souviens
Des jours anciens
Et je pleure

Et je m'en vais
Au vent mauvais
Qui m'emporte
Deçà, delà,
Pareil à la
Feuille morte."
(Chanson d'automne, Paul Verlaine)

Una ragazza porta tutti i giorni i fiori sulla tomba del fidanzato: il corpo del suo amato non appartiene a quella terra, sepolto senza nome in qualche campo francese ancora insanguinato da una Guerra che si è portata via tutta la giovinezza delle Nazioni che l'hanno scatenata lasciandosi dietro solo fantasmi; il mondo che li circonda è in bianco e nero, gli unici colori concessi dal lutto e dal dolore di chi finge di poter ricominciare ma ha perso per strada troppi pezzi: la cartolina che presenta Frantz di François Ozon è di quelle che potresti trovare nei romanzi di Stefan Zweig, con la Mitteleuropa reduce dal Primo Conflitto Mondiale incapace di riappacificarsi con lo straniero quanto con sé stessa e la sua arroganza, la stessa che avrebbe riportato il mondo sull'orlo del baratro vent'anni dopo aver lavato via dagli scarponi le croste di fango delle trincee.

Di quello studente con la passione del violino che ha pagato con la vita l'insistente patriottismo dell'autorità paterna ed è partito senza mai più tornare non rimane che il nome, il gelo dell'assenza che tiene il suo piccolo paese prigioniero di ricordi che iniziano a sbiadire lentamente nella sacralità confusa e intoccabile del mito: a infrangere l'incantesimo arriva Adrien, un amico francese di Frantz dei tempi di Parigi che prova a dare un po' di sollievo alla famiglia del ragazzo e alla fidanzata Anna, la ragazza che doveva sposarsi in autunno e che adesso vive come una figlia adottiva nella casa dei genitori del suo promesso; il viaggio di rinascita che ne consegue passa attraverso un'oculata rete di bugie, dolci ma necessarie e ben più catartiche della verità, che il poliedrico regista francese costruisce con la grazia di chi conosce bene il genere e sa come gestirlo senza strafare, favorito dalla scelta di mantenere a portata d'orecchio le differenze linguistiche fra Francesi e Tedeschi aumentando il senso di alienazione dei personaggi quanto quello dello spettatore.

Mai timoroso di sperimentare, Ozon si tiene ben alla larga dall'esasperato (nei toni quanto nei colori)Angel, pregevolissimo ma saturo melodramma confezionato anni fa, per raccontare una storia di flebili bagliori che pur privata consapevolmente del colore ben oltre la scelta stilistica(in perfetto stile Pleasantville, l'abbandono del grigio viene concesso solo a pochi minuti di ricordi per non ripetersi mai più) ci scalda il cuore e ci fa scalpitare e disperare sulla poltrona come si conviene a un bel romanzo del Periodo, mai urlato, delicato, nutrito da sguardi nascosti e parole non dette: basta l'emaciata tristezza di Pierre Niney, la stessa che potresti trovare nella vecchia foto di un parente sbiadita e dimenticata in soffitta e che ti guarda restituendo al mittente una lunga serie di domande senza risposta, ma soprattutto la grazia dell'emergente Paula Beer, bella e luminosa come una Madonna rinascimentale coi suoi occhi pieni di malinconia e speranza, anche con tutto il bianco e nero.


2 commenti:

  1. Davvero un bel film. Ozon è un regista particolare, non si può dire abbia una produzione monocorde.

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    1. Mai, non si fa intimorire da nessun genere e nei suoi film c'è sempre qualcosa di unico e originale. Lo adoro :)

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