lunedì 27 agosto 2012

Sherlock 2x02: The Hounds of Baskerville

“Once you’ve ruled out the impossible, whatever remains, however improbable, must be true.”



“But adapting the story, I did feel more of a responsibility to include things from the original than you would with The Sign of Four, because there are a lot of landmarks in The Hound of the Baskervilles and more people are more familiar with them”. Le dichiarazioni di Mark Gatiss non sono da biasimare: Il Mastino dei Baskerville (The Hound of The Baskervilles) è uno di quei libri su cui sai sempre di poter contare, di quelli che saltano fuori dai bauli polverosi delle soffitte per passare di generazione in generazione o abitano stabilmente gli scaffali della tua libreria di fiducia, al punto da caricare ogni adattamento di pressanti responsabilità.
Con The Hounds of Baskerville anche la serie della BBC Sherlock schiera in campo la sua versione, in un secondo episodio che pur preservando diversi ingredienti del romanzo preferisce abbracciare un plot di maggiore attualità, reinventato ad arte ma sempre con grande reverenza da Gatiss.
La Gotica Magione di Baskerville Hall diventa una blindatissima Base Militare mentre Sir Henry, ultimo rampollo dell’antica famiglia ad essere perseguitato dal leggendario mastino, è sostituito dal commoner Henry Knight(Russell Tovey): afflitto dal ricordo della notte in cui ancora bambino fu testimone dell’assassinio del padre, ucciso anni prima dalla furia di una strano animale il giovane si reca personalmente da Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch), reso intrattabile dalla mancanza di nuovi casi( “Oh, John, I envy you so much.Your mind, it’s so placid, straight-forward, barely used.Mine’s like an engine, racing out of control. A rocket, tearing itself to pieces, trapped on the launch pad. I need a case!), ma come già accaduto in passato non viene preso sul serio; solo quando il giovane dichiara di aver scoperto nella brughiera le impronte di un gigantesco mastino(“Mr Holmes, they were the footprints of a gigantic hound!”come da Canone) Sherlock decide improvvisamente di accettare il caso e recarsi nel Devon insieme a John Watson( Martin Freeman), per indagare sugli spaventosi esperimenti svolti nella Base di Baskerville e capire se gli incubi di Henry sono reali.
Tuttavia, una volta giunti nel Dartmoor le certezze di Holmes vengono inaspettatamente messe alla prova: sempre infallibili ma stavolta pronti a tradirlo, i suoi occhi non possono negare gli aver colto l’enorme bestia nell’oscurità della brughiera, gettando il Detective in uno stato di terrore tale da portarlo quasi a incrinare il  rapporto con John, che incredulo assiste al crollo dell’amico.
Il diverbio fra i due è però presto risolto, quando Sherlock comprende che dietro la spaventosa e realistica visione del Mastino deve nascondersi una spiegazione razionale: una droga che si nutre delle paure altrui, un allucinogeno creato in laboratorio come arma di distruzione che si diffonde per via aerea mischiandosi alla nebbia notturna.

Il Dottor Bob Frankland (Clive Mantle), affabile virologo che al lavoro nella Base ma in realtà parte attiva del progetto H.O.U.N.D.(in italiano, appunto, mastino), acronimo formato dalle iniziali dei principali scienziati coinvolti, aveva ucciso il padre di Henry per impedirgli di denunciare i devastanti effetti collaterali provocati dalla droga: la parola di Henry, testimone scomodo del delitto, doveva essere screditata e l’esposizione prolungata alla sostanza psicotropa, portatrice di potentissime allucinazioni, si era rivelata il mezzo ideale.
Nel tentativo di sfuggire alla giustizia Frankland si rifugia nella brughiera ma la sua corsa è breve: nel campo minato di Grimpen(Grimpen Minefield), area off limits che circonda il Complesso Militare, lo scienziato trova la sua fine saltando in aria su una mina.
Dopo aver inseguito la ricchissima sceneggiatura di Steven Moffat per tutta la durata di A Scandal in Belgravia, lo sforzo che Mark Gatiss chiede con The Hounds of Baskerville è senza dubbio meno titanico: alla struttura vertiginosa proposta dall’amico Gatiss risponde con un impianto narrativo semplice e lineare, un’architettura dal gusto classico che in perfetta sintonia col percorso intrapreso dall’opera letteraria si rivela più che benvenuta.
Se a terrorizzare la contemporaneità non sono tanto le vecchie case e le notti nebbiose quanto i progressi che scienza e tecnologia portano avanti dietro le quinte, allo spettatore che vaga disorientato per la brughiera non sfuggirà la trasformazione della dimora dei Baskerville in una fredda Base Militare dove si svolgono strani esperimenti: esplorandone i blindatissimi corridoi ritroverà nomi familiari come quello di Barrymore, un tempo maggiordomo della casa promosso per l’occasione a maggiore dell’esercito(insieme alla sua anacronistica ma inconfondibile barba)e il Naturalista Stapleton, che ceduto lo scettro di cattivo della storia diventa una mamma colpevole della sparizione del coniglietto della figlia, regalandoci con il caso Bluebell il plot twist più divertente dell’episodio( ulteriore prova di quanto gli autori si divertano a giocare col pubblico).
Il ruolo del villain viene allora ereditato da Frankland, scienziato pazzo quasi impaziente di dichiararsi subito colpevole a pochi minuti dalla sua entrata, mentre il vero tocco di classe nell’attualizzazione della storia è piuttosto il Grimpen Minefield, campo minato perfettamente funzionale a sostituire la misteriosa palude dell’opera chiamata Grimpen Mire.
Se la rivelazione del cattivo non risulta particolarmente illuminata, a dare il meglio in THOB è la raggelante atmosfera, satura dei brividi che dagli oscuri paesaggi del Dartmoor alle inquietanti pareti di laboratorio corrono addosso ai personaggi senza risparmiare nessuno, nemmeno il più razionale degli uomini: seduto davanti al camino con gli occhi lucidi e lo sguardo atterrito, mentre sorseggia tremante un bicchiere di Whisky e cerca senza successo di riacquistare il controllo sui suoi sensi, Benedict Cumberbatch si lancia in un vortice di deduzioni senza controllo talmente estenuante da risultare quasi ipnotico, una raffica di battute inafferrabili che ci conferma quanto la sua performance nei panni di Sherlock sia unica e sconvolgente.
La vera scena assoluta dell’episodio è però affidata al John Watson di Martin Freeman, che rinchiuso in laboratorio da Holmes per ragioni ” scientifiche” lascia allo spettatore, inevitabilmente prigioniero con lui nella stessa claustrofobica gabbia, un’ansia e un’oppressione non da poco. Lo spirito della maledizione di Baskerville continua intanto a perseguitare il povero Henry Knight, che nell’interpretazione di un disperato Russell Tovey riesce ad essere credibile senza risultare forzatamente eccessivo.
Nonostante le scelte piuttosto scorrette che Sherlock intraprende contro John a beneficio dell’ indagine e gli affettuosi insulti che gli rivolge continuamente (“You’ll never be the most luminous of people, but as a conductor of light, you’re unbeatable! Some people who aren’t geniuses have an amazing ability to stimulate it in others.”), al di là di ogni incomprensione l’amicizia fra i due rimane salda e sincera: quando Holmes dice a Watson di  avere solo un amico (“I don’t have friends, I’ve just got one”) cercando di riparare al suo errore, la cornice del piccolo cimitero di campagna non può che presagire con amarezza all’appuntamento con The Reichenbach Fall, terzo episodio della serie dove Sherlock affronterà per l’ultima volta Jim Moriarty (Andrew Scott); nel frattempo, il Napoleone del Crimine si limita a concederci un piccolo cameo, dando forma alla grande paura di Holmes e dimostrandoci quanto questi tema il momento del confronto con la sua nemesi.
Pur sempre attento alle citazioni, con Sherlock che mette piede a Baker Street armato di arpione e letteralmente coperto di sangue( riferimento a The Adventure of Black Peter) prima di cadere in una divertente crisi d’astinenza, ma soprattutto nell’immortale citazione che strizza l’occhio a The Sign of Four(“Once you’ve ruled out the impossible, whatever remains, however improbable, must be true.”), l’incursione horror operata da Mark Gatiss in The Hounds of Baskerville ha un tono meno scoppiettante di quello che abbiamo gustato in A Scandal In Belgravia, ma l’impeccabile spirito d’indagine dimostrato nello scrutare al microscopio pregi e difetti dei nostri beniamini, anche in alcune brevi ma fantastiche parentesi domestiche, ci rende impossibile non amarlo incondizionatamente: se Mark Gatiss avesse inserito nella sceneggiatura la mitica partita a Cluedo di Sherlock e John, sarebbe stato tutto perfetto.

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