"Dreams are … dreams."

A rallentare la giostra arrivano le scelte e il loro urgente e assoluto bisogno di certezze, il definirsi del quadro che costringe a lasciare indietro ciò che non può entrare nella cornice senza compromettere per sempre l'equilibrio della composizione, la lista di tutte le opportunità abbandonate o perdute che si trasforma prima in rimorso e in fine in nostalgia, per tenere a bada il tormento dei fantasmi delle vite che abbiamo dovuto scegliere di non vivere.
Che dilemma, quest'umanità condannata per sua stessa natura a non poter godere della felicità completa e a dover portare sempre con sé il fardello delle proprie decisioni, di quelli che a farci un film con la giusta quantità di gravitas e drama ne verrebbe fuori un prodotto da Oscar multipli e giù di lacrimoni: coerente coi lietmotiv che attraversano alcuni dei suoi lavori più riusciti (e più amati da chi scrive) Woody Allen preferisce però infondere nel suo ultimo Cafè Society tutta l'amara ironia, la nevrosi e la delicata tenerezza con cui i suoi personaggi, novecenteschi fino al midollo, finiscono spesso per accompagnarsi: protagonisti della storia di un amore e di un mondo che è già un ricordo nelle sfumature ocra della fotografia di Vittorio Storaro, Bobby e Vonnie si incontrano e si innamorano nel posto sbagliato al momento sbagliato e finiscono invischiati nella più classica rete di complicazioni ed equivoci che governa la Commedia della vita, diretta da quel sadico autore anonimo che si diverte a giocare coi nostri sentimenti e a burlarsi delle nostre speranze con un pessimo tempismo; tocca rimboccarsi le maniche ed essere forti, provarci e riprovarci confidando che un giorno finalmente ci azzeccheremo, chiudere gli occhi per un attimo e ritrovare i colori caldi di un semplice ristorante messicano o di un piatto di spaghetti con le polpette, le cartoline di un passato rimasto incompiuto che con mite rassegnazione torniamo a osservare per riempire i vuoti di una vita che non potrà mai bastare a sé stessa.