"I have this terrible feeling that we might all just be human."
Come prevedibile dopo gli eventi di The Six Thatchers si riparte da un John Watson chiuso in sè stesso, di nuovo in terapia per cercare di superare il lutto per la morte di Mary quanto il senso di colpa per essersi abbandonato anche se senza conseguenze alla fantasia dell'infedeltà: da sempre introverso e silenziosamente perseguitato dai propri demoni (nel qual caso la moglie che diventa la voce della coscienza che non vorrebbe ascoltare), il personaggio di John resta fedele a sè stesso e alla sua psicologia, mentre a creare maggiore scompiglio è come sempre Sherlock Holmes e il suo essere incontenibile tanto nella finezza d'ingegno quanto nella sua nuova riscoperta umanità.
Il sacrificio compiuto da Mary è reale e difficile da comprendere per colui che fino a pochi anni prima giocava con la sua vita per il puro gusto di dimostrare la propria intelligenza, ma l'amicizia con Watson e i tanti eventi di dolore che l'hanno attraversata hanno ucciso da tempo il Detective che guardava con stupore e diffidenza ai legami fra gli esseri umani per restituirci un uomo che sa cosa significhi amare e che farebbe qualunque cosa per proteggere i suoi affetti; sullo sfondo stavolta c'è la battaglia contro Culverton Smith, interpretato alla perfezione da un grande Toby Jones, villain classico viscido e sopra le righe quanto basta ma anche terribilmente attuale nelle sue inquietanti similitudini con l'infame volto della televisione britannica Jimmy Savile.
Proprio nella forsennata corsa di Sherlock, deciso a riportare indietro l'amico distrutto e beffato ancora una volta dal destino sta il vero cuore dell'episodio, ispirato all'avventura del Detective morente di Arthur Conan Doyle e opportunamente ricucito con fare shakespeariano intorno alle esigenze della trama orizzontale. Citare il Bardo non è fuori luogo: c'è molto dell'Amleto di Benedict Cumberbatch nella performance dell'attore, grandioso nel rendere la follia e l'imprevedibilità del suo personaggio con sbalzi divertenti (la scena in cui recita senza controllo e armato di pistola uno dei passaggi più famosi dell'Enrico V è già un cult) e pur strazianti nella totale e assoluta devozione di Sherlock nei confronti dell'amico, tale da non conoscere esitazione neppure dinanzi alla rabbia disperata del Dottore e alla prospettiva di andare per lui quanto prima incontro alla morte.
Curiosamente, l'Amleto di Cumberbatch torna prepotente nel nostro immaginario anche grazie alla presenza nel cast di Sian Brooke, interprete in quell'occasione della fragile Ophelia e qui protagonista di un plot twist da brivido che minaccia di scuotere nel profondo le certezze dei personaggi così come quelle del pubblico: ancora una volta abbiamo guardato ma non osservato, ci siamo fatti prendere dal gioco ma ci siamo lasciati sfuggire il dettaglio più importante e abbiamo voluto essere imbrogliati dal prestigio; come Sherlock abbiamo inciampato nella nostra stessa umanità e saremo felici di rimediare, per risolvere il problema finale che ci attende minaccioso al prossimo episodio.
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