"Qualsiasi racconto tradizionale di argomento religioso o eroico, nel quale i fatti e i personaggi, sia immaginari sia desunti dalla storia (ma soggetti in questo caso a un’amplificazione fantastica che altera il dato storico), sono in genere collegati con luoghi e tempi determinati": dritta dritta dalla Treccani, questa definizione di leggenda si mette ben volentieri a servizio del mezzo cinematografico e dei suoi snodabili strumenti per consacrare il racconto di due uomini le cui vite sono state unite sotto la corona d'alloro del mito anche se per ragioni completamente differenti; Hugh Glass, guida delle montagne il cui spirito è rimasto intrappolato fra i ghiacci di un America dimenticata da Dio e dall'umanità stessa, e Steve Jobs, stella del ventesimo secolo strappata via alla vita troppo presto per non diventare un'icona assoluta da venerare, pronto ad ispirare tanti giovani col suo stay hungry stay foolish e a tenere viva la fiamma del proprio estro con tutta l'energia e ostinazione di chi è certo di avere sempre la vittoria in tasca.
Interpretati sul grande schermo rispettivamente da Leonardo Di Caprio in The Revenant e da Michael Fassbender in Steve Jobs, i nostri due protagonisti sono talmente distanti e polari che accostarli sembrerebbe un azzardo troppo grande e insostenibile: eppure, lasciando da parte la corsa all'Oscar e il duello che vedrà probabilmente trionfare DiCaprio dopo anni di prese in giro e cocenti delusioni (nessuno degli altri candidati, Fassbender a parte, è davvero in grado di contrastarlo quest'anno nella corsa alla statuetta) è la stessa leggenda e la sua capacità di vivere attraverso il potere del racconto, orale e scritto prima, cinematografico poi, a trasfigurare le loro vite e a prestarle al grande schermo per una trasposizione che sappia rendere loro la giustizia che meritano, consegnando il proprio lascito alla clemenza della nostra memoria e alla naturale deformazione che l' immaginazione non può fare a meno di produrre.
Diretto da Alejandro González Iñárritu dopo l'exploit dell'acclamatissimo Birdman, The Revenant non è un film meno ambizioso e compiaciuto del suo predecessore: nel Missouri del primo '800 i Mercanti di pelli sopravvivono a una vita di Frontiera respingendo gli attacchi dei Nativi con la stessa determinazione con cui l'inverno distrugge il loro spirito giorno dopo giorno, abbattendo il ricordo delle persone amate sotto i colpi del vento gelido e uccidendo un Dio che nella Terra di Nessuno assume la forma di quelle poche, provvidenziali creature viventi che la natura sceglie di risparmiare al freddo, destinate ad essere squartate e divorate dall'uomo con la furia delle Bestie.
Un mondo di dolore contro il quale Hugh Glass, ormai legato a quelle terre da un vincolo di sangue e dal fantasma del ricordo di un amore perduto combatte dimostrando una capacità di resistenza quasi disumana: abbandonato nella foresta in difficoltà dopo aver subito l'attacco di un orso e privato di tutto ciò che aveva da un antagonista che non aveva mai conosciuto altro che la durezza di una vita di stenti, Glass attraversa la sterminata crudeltà della natura risorgendo dalla sua stessa carne martoriata e guardando alla vendetta come meta ultima del suo viaggio; a condurlo oltre il limite dell'umano sentire e a dargli la forza di sopravvivere peripezia dopo peripezia sono però le visioni oniriche e le allucinazioni che lo costringono a guardare attraverso gli elementi della Terra, dell'acqua e del cielo alla ricerca di una divinità che non può davvero aver abbandonato i suoi figli in quel silenzio assordante e senza pace.
Lasciati indietro i dialoghi taglienti di Birdman Iñárritu mette le sue capacità a servizio di una storia che scarnifica all'osso le parole di cui ha bisogno e chiede al suo pubblico una pazienza non comune; illuminando di mera luce naturale le ombre ancestrali di uomini che come animali non possono fare altro che devastare e distruggere, nutrirsi di carne cruda e strisciare lungo le rive dei fiumi, uccidere perchè il più forte possa avere la meglio nel branco e sopprimere i più deboli, la fotografia di Emmanuel Lubezki è un incanto che stordisce e confonde meravigliosamente, ma i meriti del regista messicano sono comunque lì perchè chiunque possa vederli: la vertigine che ci abbatte contro i fiumi scroscianti e i manti innevati, gli schizzi di sangue che sporcano la camera e i primi piani che ci incollano alle ferite e agli animali morti fino a farci sentire l'odore delle loro carni putrefatte sono tutta opera sua, in una deriva di Malickiana memoria preoccupata dal bisogno di trovare una via di comunicazione col pubblico molto di più di quanto lo sia negli ultimi tempi il regista di The Tree of Life.
La cruda verosimiglianza della messa in scena rischia di perdere qualche punto a causa della resistenza incontenibile che Glass manifesta contro i suoi affanni più letali, ma alla fine poco importa: la realtà si mischia con la finzione, la leggenda sfuma la verità e dà al suo l'eroe l'opportunità di trascendere i suoi stessi limiti, fino allo scontro finale che concluderà il suo calvario nel più classico e ferino dei modi possibili; Leonardo Di Caprio e Tom Hardy sono due belve purosangue pronte sfidarsi e a sbranarsi a vicenda con la rabbia più becera e assistere allo scontro è per noi un privilegio.
Al riparo da fiumi gelati ma immerso in un fiume di parole che lascia quasi senz'aria, lo Steve Jobs di Danny Boyle resta lontano dagli spazi aperti preferendo chiudersi nel Backstage in attesa del lancio di alcuni dei prodotti che più sono stati segnati dall'estro di Jobs, nel bene e nel male: una gestazione lunga e sofferta per il film che ha visto saltare la testa di David Fincher e subentrare il regista di Trainspotting, nel bel mezzo del fitto scambio di email hackerate che ha scatenato lo scandalo della Sony Pictures e fatto sorgere più di un dubbio sul risultato finale.
Alla fine, senza bisogno di scomodare la tristemente nota pellicola con protagonista Ashton Kutcher, il nuovo Steve Jobs è una piece teatrale di grande finezza costruita interamente sulla danza delle parole della penna di Aaron Sorkin e sulla bravura dei suoi interpreti, ma anticlimatica e poco galvanizzante a ragione di un regista quasi del tutto non pervenuto e di una narrazione episodica originale e ben cesellata, ma non abbastanza da chiudere il cerchio in modo soddisfacente.
Come in The Social Network, la sfida è sviscerare un'icona che ha fatto del pratico e frenetico mondo della tecnologia moderna il suo regno e il suo parco giochi preferito, guardando dentro la sua vita solitaria e scomponendone il puzzle degli affetti per scoprire che tipo di uomo si nasconda davvero dietro ad una grande idea originale. Fra gli anni '80 e il 2000, il genio si carica per affrontare il suo pubblico e prende dai pochi che lo amano qualunque cosa gli sia utile, muovendosi dietro le quinte del palcoscenico come nel labirinto dei circuiti di quei sistemi che si appresta a promuovere con tanto carisma; la leggenda vive ancora, ma perde il suo alone di santità restituendoci un uomo dalla personalità ingombrante e sgradevole, pronto quasi mai a dare e sempre a ricevere, il Direttore d'Orchestra che si gode gli applausi e le lodi ma non si ferma mai a ringraziare i musicisti.
Il destino del film è interamente nelle mani di Aaron Sorkin e dei suoi attori: versatile come sempre nel calarsi nei panni di un personaggio complesso e irriverente pur non condividendo con quest'ultimo alcuna somiglianza fisica (cosa che aveva in un primo tempo fatto guadagnare qualche punto alla versione di Kutcher), Michael Fassbender duetta con una Kate Winslet appesantita dal look vintage ma impeccabile nel ruolo della dolce e sempre leale assistente Joanna, sfida in singolar tenzone un tragico Jeff Daniels in una delle scene più estenuanti ed efficaci del film e calpesta senza pietà l'amor proprio dello Steve Wozniak di Seth Rogen, l'ex amico e collaboratore condannato a rinunciare a qualunque pubblico riconoscimento perchè il gran Steve Jobs possa risplendere da solo come un Leonardo Da Vinci dei nostri tempi.
La mancanza della mano ferma di Danny Boyle, appena accennata nelle scene di transizione fra un anno e l'altro e praticamente assente nel resto della pellicola si fa però sentire parecchio: Steve Jobs va avanti col pilota automatico rinunciando a lasciare davvero il segno nell'immagine come aveva fatto The Social Network seguendo la figura ancora acerba di Zuckerberg mentre attraversava malinconica il Campus a tarda sera, abbattendo l'orgoglio degli arroganti gemelli Winklefloss durante l'estenuante gara di canottaggio dell'università o stando addosso al magnetico Sean Parker mentre tentava con affascinanti offerte il caro Mark nella bolgia di luci e caos di una discoteca alla moda; resta la fiumana del testo di Sorkin, l'originalità di un impianto che sfida la tradizione ritagliandosi pochi istanti per capire debolezze e punti di forza del mito, la luce negli occhi di un protagonista che con la consapevolezza di chi accetta in fine di "essere fatto male" riesce a farsi amare anche a fronte di un carattere ingestibile e scostante, la nostalgia per quel mattoncino del walkman che ci portavamo dietro con insistenza e selezionando accuratamente le canzoni da ascoltare.
Riuscirà Leonardo a vincere l'agognato Oscar o Michael ha ancora qualche speranza? Dopo la carica della performance di The Wolf of Wall Street sfidare la sorte avversa con un personaggio che non apre quasi mai bocca per vivere unicamente in una performance fisica e viscerale è un paradosso, ma quest'anno per il caro Leo sembra davvero la volta buona. Decidere quale leggenda sia stata meglio raccontata e quale pellicola debba spuntarla è questione molto più spinosa: The Revenant e Steve Jobs non sono film perfetti e il duello non può concludersi decretando che lo script e i suoi interpreti debbano essere più importanti di una precisa impronta autoriale o che uno strabiliante apporto tecnico debba essere più potente del peso delle parole e dell'intuizione narrativa che le sostiene.
Il cinema è equilibrio e disequilibrio, combinazione di elementi potenti e apparentemente necessari in egual misura, una grammatica di regole e schemi che la creatività piega a suo piacimento per portare sul grande schermo la propria visione e sottoporla al vaglio dello spettatore, giustamente esigente e mal disposto ad accontentarsi in quel complicato e personalissimo viaggio chiamato apprezzamento.
Deponiamo dunque le armi, almeno per stavolta, per arrenderci senza rimpianti a due lavori lontanissimi ma entrambi in grado di arrivare al cuore del Mito in modo audace e mai convenzionale, entrambi forti delle performance di due Lead straordinari e di grandi comprimari ed entrambi persi nell'ambizione con cui hanno scelto di affrontare la materia trattata: entrambi cinema, estremo ed estenuante, imperfetto e azzardoso come solo la creatività umana sa essere.
Un mondo di dolore contro il quale Hugh Glass, ormai legato a quelle terre da un vincolo di sangue e dal fantasma del ricordo di un amore perduto combatte dimostrando una capacità di resistenza quasi disumana: abbandonato nella foresta in difficoltà dopo aver subito l'attacco di un orso e privato di tutto ciò che aveva da un antagonista che non aveva mai conosciuto altro che la durezza di una vita di stenti, Glass attraversa la sterminata crudeltà della natura risorgendo dalla sua stessa carne martoriata e guardando alla vendetta come meta ultima del suo viaggio; a condurlo oltre il limite dell'umano sentire e a dargli la forza di sopravvivere peripezia dopo peripezia sono però le visioni oniriche e le allucinazioni che lo costringono a guardare attraverso gli elementi della Terra, dell'acqua e del cielo alla ricerca di una divinità che non può davvero aver abbandonato i suoi figli in quel silenzio assordante e senza pace.
Lasciati indietro i dialoghi taglienti di Birdman Iñárritu mette le sue capacità a servizio di una storia che scarnifica all'osso le parole di cui ha bisogno e chiede al suo pubblico una pazienza non comune; illuminando di mera luce naturale le ombre ancestrali di uomini che come animali non possono fare altro che devastare e distruggere, nutrirsi di carne cruda e strisciare lungo le rive dei fiumi, uccidere perchè il più forte possa avere la meglio nel branco e sopprimere i più deboli, la fotografia di Emmanuel Lubezki è un incanto che stordisce e confonde meravigliosamente, ma i meriti del regista messicano sono comunque lì perchè chiunque possa vederli: la vertigine che ci abbatte contro i fiumi scroscianti e i manti innevati, gli schizzi di sangue che sporcano la camera e i primi piani che ci incollano alle ferite e agli animali morti fino a farci sentire l'odore delle loro carni putrefatte sono tutta opera sua, in una deriva di Malickiana memoria preoccupata dal bisogno di trovare una via di comunicazione col pubblico molto di più di quanto lo sia negli ultimi tempi il regista di The Tree of Life.
La cruda verosimiglianza della messa in scena rischia di perdere qualche punto a causa della resistenza incontenibile che Glass manifesta contro i suoi affanni più letali, ma alla fine poco importa: la realtà si mischia con la finzione, la leggenda sfuma la verità e dà al suo l'eroe l'opportunità di trascendere i suoi stessi limiti, fino allo scontro finale che concluderà il suo calvario nel più classico e ferino dei modi possibili; Leonardo Di Caprio e Tom Hardy sono due belve purosangue pronte sfidarsi e a sbranarsi a vicenda con la rabbia più becera e assistere allo scontro è per noi un privilegio.
Al riparo da fiumi gelati ma immerso in un fiume di parole che lascia quasi senz'aria, lo Steve Jobs di Danny Boyle resta lontano dagli spazi aperti preferendo chiudersi nel Backstage in attesa del lancio di alcuni dei prodotti che più sono stati segnati dall'estro di Jobs, nel bene e nel male: una gestazione lunga e sofferta per il film che ha visto saltare la testa di David Fincher e subentrare il regista di Trainspotting, nel bel mezzo del fitto scambio di email hackerate che ha scatenato lo scandalo della Sony Pictures e fatto sorgere più di un dubbio sul risultato finale.
Alla fine, senza bisogno di scomodare la tristemente nota pellicola con protagonista Ashton Kutcher, il nuovo Steve Jobs è una piece teatrale di grande finezza costruita interamente sulla danza delle parole della penna di Aaron Sorkin e sulla bravura dei suoi interpreti, ma anticlimatica e poco galvanizzante a ragione di un regista quasi del tutto non pervenuto e di una narrazione episodica originale e ben cesellata, ma non abbastanza da chiudere il cerchio in modo soddisfacente.
Come in The Social Network, la sfida è sviscerare un'icona che ha fatto del pratico e frenetico mondo della tecnologia moderna il suo regno e il suo parco giochi preferito, guardando dentro la sua vita solitaria e scomponendone il puzzle degli affetti per scoprire che tipo di uomo si nasconda davvero dietro ad una grande idea originale. Fra gli anni '80 e il 2000, il genio si carica per affrontare il suo pubblico e prende dai pochi che lo amano qualunque cosa gli sia utile, muovendosi dietro le quinte del palcoscenico come nel labirinto dei circuiti di quei sistemi che si appresta a promuovere con tanto carisma; la leggenda vive ancora, ma perde il suo alone di santità restituendoci un uomo dalla personalità ingombrante e sgradevole, pronto quasi mai a dare e sempre a ricevere, il Direttore d'Orchestra che si gode gli applausi e le lodi ma non si ferma mai a ringraziare i musicisti.
Il destino del film è interamente nelle mani di Aaron Sorkin e dei suoi attori: versatile come sempre nel calarsi nei panni di un personaggio complesso e irriverente pur non condividendo con quest'ultimo alcuna somiglianza fisica (cosa che aveva in un primo tempo fatto guadagnare qualche punto alla versione di Kutcher), Michael Fassbender duetta con una Kate Winslet appesantita dal look vintage ma impeccabile nel ruolo della dolce e sempre leale assistente Joanna, sfida in singolar tenzone un tragico Jeff Daniels in una delle scene più estenuanti ed efficaci del film e calpesta senza pietà l'amor proprio dello Steve Wozniak di Seth Rogen, l'ex amico e collaboratore condannato a rinunciare a qualunque pubblico riconoscimento perchè il gran Steve Jobs possa risplendere da solo come un Leonardo Da Vinci dei nostri tempi.
La mancanza della mano ferma di Danny Boyle, appena accennata nelle scene di transizione fra un anno e l'altro e praticamente assente nel resto della pellicola si fa però sentire parecchio: Steve Jobs va avanti col pilota automatico rinunciando a lasciare davvero il segno nell'immagine come aveva fatto The Social Network seguendo la figura ancora acerba di Zuckerberg mentre attraversava malinconica il Campus a tarda sera, abbattendo l'orgoglio degli arroganti gemelli Winklefloss durante l'estenuante gara di canottaggio dell'università o stando addosso al magnetico Sean Parker mentre tentava con affascinanti offerte il caro Mark nella bolgia di luci e caos di una discoteca alla moda; resta la fiumana del testo di Sorkin, l'originalità di un impianto che sfida la tradizione ritagliandosi pochi istanti per capire debolezze e punti di forza del mito, la luce negli occhi di un protagonista che con la consapevolezza di chi accetta in fine di "essere fatto male" riesce a farsi amare anche a fronte di un carattere ingestibile e scostante, la nostalgia per quel mattoncino del walkman che ci portavamo dietro con insistenza e selezionando accuratamente le canzoni da ascoltare.
Riuscirà Leonardo a vincere l'agognato Oscar o Michael ha ancora qualche speranza? Dopo la carica della performance di The Wolf of Wall Street sfidare la sorte avversa con un personaggio che non apre quasi mai bocca per vivere unicamente in una performance fisica e viscerale è un paradosso, ma quest'anno per il caro Leo sembra davvero la volta buona. Decidere quale leggenda sia stata meglio raccontata e quale pellicola debba spuntarla è questione molto più spinosa: The Revenant e Steve Jobs non sono film perfetti e il duello non può concludersi decretando che lo script e i suoi interpreti debbano essere più importanti di una precisa impronta autoriale o che uno strabiliante apporto tecnico debba essere più potente del peso delle parole e dell'intuizione narrativa che le sostiene.
Il cinema è equilibrio e disequilibrio, combinazione di elementi potenti e apparentemente necessari in egual misura, una grammatica di regole e schemi che la creatività piega a suo piacimento per portare sul grande schermo la propria visione e sottoporla al vaglio dello spettatore, giustamente esigente e mal disposto ad accontentarsi in quel complicato e personalissimo viaggio chiamato apprezzamento.
Deponiamo dunque le armi, almeno per stavolta, per arrenderci senza rimpianti a due lavori lontanissimi ma entrambi in grado di arrivare al cuore del Mito in modo audace e mai convenzionale, entrambi forti delle performance di due Lead straordinari e di grandi comprimari ed entrambi persi nell'ambizione con cui hanno scelto di affrontare la materia trattata: entrambi cinema, estremo ed estenuante, imperfetto e azzardoso come solo la creatività umana sa essere.
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