vorrei tanto scriverti la recensione entusiasta e piena di frasi felicerrime che tu ti aspetteresti da me, ma non mi pare che tu ti sia comportato particolarmente bene nei miei confronti, anzi a dirla tutta direi che sei stato uno degli anni più penosi della mia intera esistenza (tutti i miei 29 anni, che son comunque tanti): avevi promesso di fare grandi cose e invece hai portato con te un sacco di lutti, dolore, dispiaceri e sofferenza, crisi personale e professionale, solitudine, rabbia e litigi, il tutto condito con una bella dose abbondante di lacrimoni. Non posso quindi dire di non essere contenta che tu te ne vada via per sempre, lontano chilometri e chilometri, ritirandoti dietro questo brutto bagaglio di robaccia che mi hai scaricato addosso. Nonostante il tuo impegno per essere nominato ufficialmente l'anno di merde più di merde di sempre, devo dire che qualcosa di buono l'hai anche fatto: in mezzo a tanta amarezza mi hai circondata di persone che mi vogliono bene davvero, mi hai regalato nuovi amici e reso quelli che già avevo ancora più importanti, mi hai dato la forza di ritrovarmi quando mi sono sentita totalmente persa. Questo vale qualcosa, anzi, direi che vale davvero tutto (ma resto superfelice che tu te ne vada via, non ti illudere). Adesso devo salutarti, caro 2015: a mai più rivederci e che tu sia maledetto, ma grazie per le cose belle che mi hai dato, sul serio.
Ora, col permesso dei lettori di questo blog che probabilmente si sono già stancati di questo lungo sproloquio personale, passiamo alle cose serie serissime...LA CLASSIFICA DEI FILM DELL'ANNO! Non è che a questo giro non abbia visto parecchia roba, ma fra i motivi di cui sopra (responsabili comunque di avermi tenuta lontana dal cinema in più di un'occasione), tutta una serie di titoli che mi sono piaciuti ma senza farmi impazzire e gridare al miracolo e il desiderio di recuperare un po' di storia del cinema seria e professionale (tanto bianco e nero e tanto Truffaut, che bellezza ) ho avuto grosse difficoltà a stilare una top adeguata di almeno 15 titoli. Sia come sia, alla fine abbiamo tirato fuori l'elenco dei film usciti in Italia quest'anno e siamo riuscite nell'impresa, pronte ad ogni evenienza in caso di complimenti o insulti a mitraglia. Il rammarico più grande? Non essere riuscita a scrivere di tutti i film in classifica, soprattutto nel meraviglioserrimo film al primo posto. Chissà, magari troverò un momento per ritirare fuori quella vecchia bozza, prima o poi....READY? LET'S GO!
Come riaccendere i motori di Doctor Who dopo gli strazianti ultimi episodi della nona stagione? Riportare in vita anche se solo per poco uno dei personaggi più importanti dell'universo del New Who è un buon modo per iniziare, ma non aspettatevi chiusure sconvolgenti o indizi diretti su ciò che vedremo l'anno prossimo: il Christmas special 2015 firmato da Steven Moffat e intitolato The Husbands of River Song è uno stand alone che diverte e commuove ma non sbilancia di una virgola l'equilibrio degli eventi, usando la trama come pretesto per aggiungere senza clamore forse il tassello più importante nel rapporto fra la figlia di Amy e Rory e il Signore del Tempo.
"We have to have the conversations our governments can't."
Diffidenti, spaventati, bloccati in un mondo che alza barriere per proteggersi e respinge a calci chi prova a cercare la salvezza scavalcandole, gli occhi pieni delle immagini di guerra che potrebbero bussare da un momento all'altro alla nostra porta e dell'impotenza di non potere fare nulla per scongiurare l'inevitabile: il legame crudele che congiunge il nostro presente alla Guerra Fredda attraversa il Ponte delle Spie (Bridge of Spies) di Steven Spielberg e punta il dito contro la giostra della storia, decisa a continuare implacabile il suo giro solo per ripetere sé stessa e non imparare mai del tutto la lezione.
Qual è la prima cosa che fate subito dopo aver visto un bel film? Discuterne coi compagni di visione è importante, prendere appunti nel caso ci fosse l'opportunità di scrivere una recensione è fondamentale, condividere un breve giudizio sui social network è ormai una prassi tanto sana (?) quanto imprescindibile, ma per la sottoscritta c'è un'unica sana vecchia abitudine senza la quale l'esperienza cinematografica non potrebbe mai dirsi davvero conclusa: recuperare e ascoltare la colonna sonora del film, passare giorni e giorni immersa nell'atmosfera di una canzone o di un tema e prolungare il più possibile l'esperienza di visione è uno dei piccoli piaceri della vita a cui non potrei mai rinunciare.
Si dice che non si dovrebbe giudicare un libro dalla copertina, ma scegliere un film partendo dalla sua colonna sonora è interessante: inciampi per caso in un titolo mai sentito, lasci che sia l'orchestra a fare la miglior promozione possibile e ti convinci che quel film lì, pur con la sua chilometrica lista di riserve, merita comunque un tentativo.
Spesso e volentieri tutto finisce bene, altre volte tu e la musica decidete di restare amici a patto che il suo film non osi mostrare mai più la sua faccia in pubblico; per questo terzo appuntamento con la rubrica soundtrack vs movie(sono passati mesi dall'ultima, ma alla fine torniamo sempre :P ), i film scoperti grazie alle loro ost ascoltate in loop erano così tanti che sceglierne 5 è stato davvero arduo. Orecchie ai posti, pronti, VIA!
The Two Faces of January
Come papà Hitch ci ha sempre insegnato, anche l'oggetto più insignificante può servire al meglio il fato nell'innescare la parabola distruttiva di un sano Thriller vecchio stampo: nel caso di The Two Faces of January, debutto alla regia in un lungometraggio di Hossein Amini, è un braccialetto dimenticato in un taxi a intrecciare la vita di Rydal, americano squattrinato in fuga dal ricordo di un padre oppressivo, a quelle di Colette e Chester MacFarland, coppia borghese all'apparenza felicemente in vacanza e in cerca di divertimenti e buona compagnia.
La torrida estate greca del 1962 che vede i protagonisti lottare per la loro sopravvivenza non può non richiamare alla memoria gli esotici scenari de il Talento di Mr Ripley (anche quello tratto da un celebre romanzo di Patricia Highsmith), ma i binari che conducono la storia verso il suo inevitabile epilogo sono molto più classici di quelli che attraversavano il film di Anthony Minghella; il platonico triangolo creato dalle circostanze collassa e implode sotto il peso di gelosia e sospetto, e si distorce all'ombra di un afflato paterno desiderato e divenuto impraticabile.
Gli dei stanno a guardare, scelgono il labirinto come teatro della tragedia e lasciano che gli uomini si distruggano nella follia dell'umana debolezza, in fuga da un destino avverso che si compiace dei loro fallimenti: approfittando di poche ma significative svolte Hithcockiane(la scena dell'autobus e quella della scale nel labirinto sono un palese omaggio al Maestro del brivido), la Grecia degli anni 60' offre la cornice necessaria per disorientare i protagonisti e spingerli a fare le scelte più sbagliate in nome del soffocante miraggio di una via d'uscita; a contendersi le attenzioni di una sofisticata Kirsten Dunst un antipatico Oscar Isaac e un Viggo Mortensen tanto fragile, disperato e incapace da rendere impossibile non tifare per lui.
Per accompagnare il peregrinare di Rydal e dei MacFarland, la colonna sonora di Alberto Iglesias è una scelta felice e appropriata: dopo l'eccellente Tinker Tailor Soldier Spy, l'artista spagnolo sposa senza difficoltà le atmosfere dei 60s con un altro score avvolgente ed elegante, dove il calore insopportabile dei luoghi e la febbre degli animi trova voce in un sax malinconicamente smarrito in mezzo a una nube di violini: insistenti e accattivanti, come una notte passata a dormire sotto le stelle fumando compulsivamente tutte le sigarette del pacchetto, o un'estenuante camminata lungo le stradine greche tutte ciottoli e calura.
Cracks
Un'isola tagliata fuori dal mondo, un collegio popolato da sole donne dove la naturale sorellanza si confonde a istinti ferini e torbide ossessioni, un porto gelido retto da un rassicurante conservatorismo vecchio di secoli che non vuole saperne di morire, nonostante gli anni 30 e i loro venti inquieti soffino con insistenza sulle barche per farsi sentire, nel tentativo di portare via le ragazze prigioniere e condurle verso la libertà: diretto nel 2008 da Jordan Scott, altra figlia del caro Ridley a cimentarsi dietro la macchina da presa (inusuale e postmoderno, il lavoro fatto da Jake sul suo Plunkett & McLeane era stato più che soddisfacente), Cracks racconta la storia dell'insegnante di nuoto Miss G e delle sue ragazze, allieve del collegio dove lei stessa aveva trascorso la gioventù e del tutto devote al faro di speranza e anticonformismo che la donna, capelli corti e colorati abiti alla moda, sembra rappresentare.
Nonostante le iniziali frasi di incoraggiamento alla Professor Keating sembrino suggerire diversamente, Cracks non è l'attimo fuggente e nemmeno Mona Lisa's Smile: l'arrivo di Fiamma, misteriosa bellezza spagnola spedita al collegio dai genitori per allontanarla da un amore inopportuno, scatena invidie profonde nelle ragazze e sconvolge l'equilibrio fisico e mentale di Miss G, morbosamente attratta dalla ragazza al punto da osare fare qualunque cosa pur di riuscire ad averla, abbattendo le sbarre della repressione mentale e sessuale entro cui la sua gioventù era stata ingabbiata con conseguenze devastanti e terribili.
Ad accompagnare il viaggio verso il baratro di Miss G. (una Eva Green bella in modo abbacinante e bravissima come sempre) e delle sue allieve, vestali vendicative pronte a seguire la sue luce ciecamente come se fossero le discepole di Saffo in persona troviamo la colonna sonora dello spagnolo Javier Navarrete, conosciuto soprattutto per le meraviglie create per ilLabirinto del Fauno di Guillermo Del Toro: in Cracks, a far da padrone è un mix di melodie raffinate e malinconiche che alternano la tragicità delle malate fantasie di Miss G. alla delicata presenza di Fiamma Corona, spirito ribelle intrappolato nella bellezza aristocratica di una pelle d'alabastro, in grado di conquistare l'attenzione delle compagne raccontando storie esotiche come una Piccola Principessa tanto quanto di scatenare in loro una furia ferina e ancestrale, espressa al massimo della sua crudeltà da un'angosciante crescendo musicale.
Fra tutti i pezzi della colonna sonora, il preferito da chi scrive è sicuramente Fascination: meno angosciante e misterioso di altri ma pieno della febbre di libertà e futuro di cui le ragazze del collegio hanno un disperato bisogno di nutrirsi per non morire, fiamma positiva sulla quale aleggiano sospese come corvi poche note piene di sospetto e inquietudine.
Interlude
Molti lo ricordano soprattutto come l'autore del tema di Jules e Jim di François Truffaut, riscoperto fra l'altro qualche anno fa grazie a La Meglio Gioventù di Marco Tullio Giordano, ma la fama di George Delerue va ben oltre il celeberrimo triangolo amoroso benedetto dal regista: favorito da Truffaut e dalle grandi produzioni di Hollywood, il compositore francese ha realizzato talmente tante colonne sonore di pregio da rendere un vero piacere perdersi nella sua produzione, ma fra titoli più o meno celeberrimi una di quelle che più amo ascoltare a ripetizione è senza dubbio il tema di Interlude, piccolo film dimenticato del 1968 con Oskar"Jules"Werner come protagonista.
Una pellicola che dimostra tutti i suoi anni, totalmente immersa nei colori e nelle atmosfere di quella Swinging London che fra audaci abitini a quadretti, minigonne colorate e voluminose acconciature difende orgogliosa la sua originalissima identità, cercando un'emancipazione e una libertà che verranno rivendicati con forza proprio dopo la rottura portata dal 68'; a sfidare le convenzioni nel film di Kevin Billington sono il direttore d'Orchestra austriaco Stefan Zelter, sposato con due figli e all'apice della fama, e la giovane reporter Sally, perfetta incarnazione del bisogno di freschezza, indipendenza e novità invocato da quegli anni: un altro triangolo amoroso per Werner, il primo dai tempi di Jules e Jim ma non meno coraggioso e audace del suo antenato, che sceglie di affrontare il classico tema del tradimento senza assolvere né condannare, analizzando con perizia psicologica notevole le conseguenze sulle parti in causa e chiudendo la storia con un finale realistico e amaro, ma assai preferibile alla patina di zucchero che una visione più indulgente avrebbe favorito.
Un Oskar Werner mai così bello e affascinante (non so voi, ma io sono sempre stata Team Jules) e una Barbara Ferris dalla voce stridula e insopportabile ma perfetta per il ruolo si innamorano così sulle note di una colonna sonora dal sapore retrò e romantico, malinconica grazie al tema portante cantato da Timi Yuro e deliziosa nelle sue sfumature medievaleggianti, scelte ad hoc per accompagnare un breve weekend fuori città dei due amanti.
The Luzhin Defence
Come ci insegna Ingmar Bergman nel suo Settimo Sigillo, la morte è una giocatrice di scacchi abile e insistente: non fa eccezione in The Luzhin Defence (conosciuto in Italia come "La Partita- La difesa di Luzhin), film del 2000 liberamente tratto dal romanzo che Vladimir Nabokov ha dedicato all'immaginario campione di scacchi russo Aleksander "Sasha" Luzhin.
Come in Shine di Scott Hicks, dove il pianista David Helfgott interpretato da Geoffrey Rush veniva spinto all'esaurimento nervoso dalla preparazione di una delle partiture di più terribili di Rachmaninoff, anche il nostro giocatore cammina sull'orlo di un precipizio: arrivato dalla Russia per un torneo sul Lago di Como in pieni anni 20', Sasha (un intenso John Turturro) è un uomo introverso al limite dell'autismo, genio nervoso e solitario che riempie interamente la sua esistenza di un talento per la scacchiera coltivato sin da bambino, inseguito come una droga irresistibile pur con la consapevolezza di arrivare un passo più vicino alla follia ad ogni singola partita.
A portare un po' di luce nella vita dell'uomo, tormentato dal ricordo di un'infanzia che l'ha visto assistere impotente alla fine del matrimonio dei genitori, ci penserà la paziente Natalia (Emily Watson), decisa ad amarlo in tutta la sua dolce insensatezza e a tentare di guarirlo dai suoi demoni contro l'opinione di parenti e amici; un personaggio presente nel romanzo originale ma felicemente ampliato e rivisto dallo script, nel ritratto di una donna determinata e devota a un amore fatto di sguardi e quasi del tutto privo di parole ma per questo forse ancora più degno di essere vissuto fino in fondo.
Mentre la storia si snoda alternando l'inquieto presente di Sasha, perseguitato dalla ricerca di una mossa formidabile e risolutiva a fiabeschi flashback che fanno pericolosamente perdere all'uomo il contatto con la realtà, Alexandre Desplat segue il percorso dei personaggi con una colonna sonora dalle note leggere e saltellanti, colma di quella tristezza e dolce malinconia che spingono il film ben oltre l'ossatura semplice e classica che lo caratterizza: in fondo, solo la magia di un accompagnamento musicale firmato da uno dei più grandi compositori viventi avrebbe potuto rendere giustizia a una danza meticolosa e attenta come quella degli scacchi.
Song of The Sea
Mentre Big Hero 6 si portava a casa l'Oscar per il miglior film d'animazione 2015, un piccolo lungometraggio irlandese se ne stava zitto zitto ad affrontare la sconfitta in mezzo a tanti illustri contendenti: diretto da Tom Moore, Song of The Sea attinge dritto dal folklore irlandese per raccontare la storia di Saoirse, una bambina di cinque anni orfana di madre che vive su un'isola in compagnia del padre affranto e del fratello Ben, geloso della sorellina e deciso a darle la colpa della scomparsa della madre; la situazione cambierà drasticamente quando in occasione del suo quinto compleanno Saoirse scoprirà di essere una Selkie, mitologia creatura marina dai magici poteri.
Circondati come siamo dall'animazione in CGI, un film come quello realizzato da Tom Moore è una vera benedizione: Song of The Sea è un gioiello dai disegni tenui e delicatissimi, acquerello blu e azzurrino intrecciato a un arabesque di disegni tratteggiati con mano dolce ma allo stesso tempo complessi e curatissimi, con scenografie fantastiche e fondali marini di rara ricchezza e bellezza.
Il cuore della storia, piena di succosi richiami mitologici e commovente per il garbo e la tenerezza con cui gestisce i rapporti fra i personaggi, vive della magia semplice e unica che solo le favole della buona notte possiedono: non poteva essere da meno la colonna sonora firmata da Bruno Coulais (l'uomo responsabile del bellissimo ost di Coraline), in grado di intervallare sonorità tipicamente irlandesi fra percussioni, cornamuse e Whistle alla fine e suggestiva ninna nanna cantata da Lisa Hannigan(in inglese e in gaelico, giusto per aumentare la nostra dose di lacrimoni e aggiungere ancora più atmosfera), pronta a cullarci dolcemente e ad accompagnarci verso luoghi misteriosi e incantati con cui l'infanzia non ha mai paura di confrontarsi.
Di fronte a un episodio straordinario come Heaven Sent, qualunque sceneggiatore si sarebbe sentito sotto pressione: non deve essere stato diverso per Steven Moffat, showrunner a autore dei due episodi in discussione, impegnato nell’impresa di battere sè stesso con una chiusura in grado di soddisfare i fan e il respiro scelto per la narrazione. Eccoci qui dunque, a confrontarci col tanto sospirato epilogo di questa nona annata di Doctor Who, intitolato Hell Bent, che scegliendo la cornice di Gallifrey per sciogliere gli ultimi nodi del conflitto del Dottore affida alla nostra clemenza un’avventura non scoppiettante nè epica, ma decisa a mettere in discussione tutto quanto avevamo visto finora e a lasciarci, se pur in balia di qualche perplessità, con un malinconico groppo in gola.
Il giorno in cui muore qualcuno che amavi non è il peggiore: i peggiori sono tutti i giorni in cui restano morti e non tornano più indietro: un'elaborazione del lutto controllata e pur rabbiosa, scritta nella storia personale di ognuno di noi e anche in quella del Dottore, lunga più di quella di chiunque altro e per questo ancora più gonfia di dolore: dopo aver detto addio a Clara nello scorso episodio Face The Raven, il tempo per riflettere sul vuoto lasciato dalla sua scomparsa si intreccia inevitabilmente con la nuova angosciante avventura che il Signore del Tempo deve affrontare, nel penultimo appuntamento con Doctor Who di questa nona stagione intitolato Heaven Sent.
Mogli, figlie, madri, lavoratrici, casalinghe: sempre dietro a un'etichetta, un ruolo da interpretare nel migliore dei modi possibili, di epoca in epoca e di progresso in progresso, nella triste consapevolezza che il peso della scelta non sarà mai lieve: perchè alla donna verrà sempre chiesto di scegliere, di frammentare il proprio tempo di fronte a un bivio pronto a testarne costantemente volontà e ambizione, di provare ad avere tutto inghiottendo il boccone amaro del sacrificio o restare ben piantata su un unico e pur ripido sentiero, di pesare il peso trascorso lontano dal marito e dai figli con un lavoro degno di essere chiamato tale o dedicarsi interamente a una carriera che la veda concorrere con opportunità pari per mansioni e retribuzione a quelle di un qualsiasi uomo, di avere 2, 3, 10 figli o di non averne affatto senza doversi giustificare sul cosa significhi o non significhi essere donna; se nulla ha potuto e mai potrà la Storia contro lo strazio della scelta e le sue conseguenze, è piuttosto il diritto stesso di scegliere, la libertà di essere padrone della propria esistenza come esseri umani e non in qualità di fattrici provette o figurini ubbidienti, di essere amate e non mercificate da doti cospicue o misere fortune, ad essere la conquista più sacra e preziosa alla quale ogni donna possa aspirare.
Vecchio di neanche un secolo per la maggior parte dei paesi occidentali e ancora un'utopia per tantissime, troppe donne nel mondo, il suffragio universale è solo uno dei tanti successi strappati con le unghie e con i denti ad una piramide sociale retta da secoli e secoli di compiacente cecità e polvere, ma ingombrante quanto basta per scoperchiare il vaso di Pandora di un Femminismo per cui oggi sembra più facile riempirsi la bocca su internet piuttosto che cercare di comprendere e agire; per tornare alle origini e raccontare la lotta delle donne per la conquista del diritto di voto nell'Inghilterra del primo 900', la regista Sarah Gavron ha scelto col suo Suffragette la via della sorellanza senza quartiere, affiancando la sceneggiatura di Abi Morgan (per nulla nuova ai ritratti di donne inaffondabili dopo la serie tv The Hour, The Invisible Woman e The Iron Lady)a un team di Attrici di primo ordine pronte a incarnare volti di ogni estrazione, pronte a minare i binari delle loro tranquille esistenze in nome di un obiettivo divenuto troppo importante per poter essere messo a tacere.