"If you want the truth, you should seek it out for yourself. That's what they're afraid of: you."
Dopo aver portato sul grande schermo la nascita del fenomeno Facebook(The Social Network) e persino la caccia ad Osama Bin Laden(Zero Dark Thirty), il cinema tenta ancora una volta di fare un buon servizio al presente e ai suoi più audaci protagonisti, approfittando di storie contemporanee per mezzi e ambientazione ma dall'anima atemporale, pur nella consapevolezza che testimoniare un evento quasi in tempo reale non necessariamente vuol dire abbracciare il punto di vista migliore.
Accostato per ovvi motivi proprio a The Social Network, The Fifth Estate non può contare sulla formidabile penna di Aaron Sorkin ma su quella di Josh Singer, già suo collaboratore in The West Wing e con un curriculum di tutto rispetto nella serialità televisiva: difficile non vedere in Julian e Daniel una diversa incarnazione di Mark Zuckerberg ed Eduardo Saverin, ma messa da parte la fine dell'amicizia fra i protagonisti e le sue irreparabili conseguenze, The Fifth Estate prende presto le distanze dal film di Fincher preferendo seguire la via di un thriller politico vecchio stampo, scandito per l'occasione dai ritmi frenetici del nostro tempo.
Se in principio era la stampa a farsi ambasciatrice di insegnamenti, dogmi, riforme e rivoluzioni donando una conoscenza priva di intermediari a chiunque avesse l'opportunità di riceverla(potente ed efficace l'omaggio alla storia delle comunicazioni che accompagna i titoli di testa del film), adesso è Internet ad eleggersi regno della libertà d'informazione e democrazia definitiva: la parabola ascendente di Wikileaks promuove un'onnipotenza culturale e comunicativa che sa farsi nobile ideale e mantra universale, salvo poi restituirci con un effetto boomerang tutti i dubbi e i rischi di una arma micidiale impossibile da gestire.
Per tradurre in immagini una realtà virtuale evanescente e inafferrabile Condon si affida alle note techno e minimaliste di Carter Burwell e a un ingente lavoro di postproduzione, donando consistenza alle conversazioni in chat grazie a scritte sovraimpresse e trasformando un crash di sistema nella visione di un incendio spaventoso e orinico: l'effetto rischia di stordire come la musica troppo alta in una macchina lanciata ad alta velocità, ma su lunga corsa si concilia piuttosto bene con la costante accelerazione che attraversa la pellicola. Del tutto reali sono invece le avveniristiche architetture di Berlino, trasparenti e cristalline come il mondo sognato da Julian Assange e perfette per ospitare gli esordi di Wikileaks.
Dato il categorico rifiuto di Assange di condonare il film in alcun modo, la sceneggiatura di Singer paga la scelta obbligata di assecondare ampiamente il punto di vista di Berg( dopo Rush, un'altra ottima prova per il bravissimo Daniel Bruhl), personaggio di coscienza e facile empatia la cui vita ordinaria viene sconvolta da eventi eccezionali.
A rendere lo script claudicante è piuttosto il tentativo di affrontare il percorso umano e professionale dell'attivista australiano forzandolo ad un autoanalisi innaturale e troppo spesso fuori contesto( la sua improvvisa riflessione sull'autismo è particolarmente infelice) quando sarebbe bastato lasciare a Benedict Cumberbatch, camaleontico interprete qui alle prese con un protagonista non molto distante dalle idiosincrasie del suo acclamato Sherlock Holmes, la libertà di lavorare maggiormente in sottrazione: Julian è un personaggio sgradevole che giustifica il suo inconfondibile look creepy con una storia sempre diversa (quasi un velatissimo omaggio al sorriso del Joker del Cavaliere Oscuro di Nolan) e che tolta la maschera della Rete si rivela subito mutevole ed egocentrico, ma è anche un rivoluzionario d'altri tempi deciso a combattere la Guerra al Segreto di Stato con la sola forza delle idee e a compiere qualsiasi sacrificio per il bene della Causa.
Se i tratti più oscuri del carattere dell'uomo vengono assolti invocando un'infanzia di privazioni e solitudine, Cumberbatch regala un'interpretazione ricca ed estenuante e trova la chiave per l'umanità del personaggio in un unico incredibile sguardo, smarrito quanto quello di un bambino rimasto solo e senza amici su una spiaggia australiana, che Julian concede agli spettatori dopo aver scoperto il tradimento del suo braccio destro: in una visione surreale ma efficace, il suggestivo "mind palace"( un altro riferimento al Detective della BBC) che su una distesa di sabbia aveva ospitato gli uffici inesistenti di Wikileaks viene spazzato via e svuotato di ogni ideale, lasciando solo il triste ricordo di quella baia abbandonata tanti anni prima.
In un cast di supporto di tutto rispetto che vede fra gli altri anche Dan Stevens( Downton Abbey), Peter Capaldi (imminente nuovo protagonista di Doctor Who) e un infido David Thewlis, spicca la coppia di funzionari americani formata da Stanley Tucci e Laura Linney, formidabili come sempre e tanto simpatici da far in effetti guadagnare parecchi punti alla diplomazia USA; abbastanza sprecato invece il personaggio di Alicia Vikander, classico plot device nato esclusivamente per regalare a Berg l'ennesima occasione di normalità da contrapporre al turbolento rapporto con Assange.
In una vicenda ancora priva di un verdetto definitivo dove il confine fra traditi e traditori è sottile al punto giusto, bilanciare le forze eleggendo il pubblico a unico giudice e garante si rivela una mossa furba e azzeccata, grazie a un intelligente finale metacinematografico che omaggia palesemente lo spirito e la missione di Wikileaks: la finzione resta tale e la verità risiede altrove, ma se avete già iniziato a porvi le domande giuste e a cercare di vostro pugno le risposte, The Fifth Estate ha senza dubbio fatto bene il suo lavoro.
Il curioso caso del sito Wikileaks, blindatissima roccaforte per ribelli e avventurieri pronti a sfidare il sistema usando come scudo l'incontenibile oceano della Rete, era materiale troppo appetibile per riuscire ad evitare a lungo le attenzioni della macchina da presa: nonostante la presenza di Bill Condon alla regia e due attori europei di calibro come Benedict Cumberbatch e Daniel Bruhl rispettivamente nei panni del controverso fondatore del sito Julian Assange e del suo braccio destro Daniel Domscheit-Berg, The Fifth Estate ( in Italia Il Quinto Potere, perchè resistere al potere della citazione era evidentemente impossibile) sembrava già nato sotto una cattiva stella, a causa delle polemiche che avevano perseguitato il progetto ancor prima della sua effettiva realizzazione: valeva davvero la pena di investire nell'impresa e sfidare le ire dei sostenitori di Wikileaks realizzando un lungometraggio di finzione su eventi tanto contestati? Rivelatosi un'opera non scevra da difetti, il film merita senza dubbio qualche riserva, ma non abbastanza da compromettere una risposta positiva.
Accostato per ovvi motivi proprio a The Social Network, The Fifth Estate non può contare sulla formidabile penna di Aaron Sorkin ma su quella di Josh Singer, già suo collaboratore in The West Wing e con un curriculum di tutto rispetto nella serialità televisiva: difficile non vedere in Julian e Daniel una diversa incarnazione di Mark Zuckerberg ed Eduardo Saverin, ma messa da parte la fine dell'amicizia fra i protagonisti e le sue irreparabili conseguenze, The Fifth Estate prende presto le distanze dal film di Fincher preferendo seguire la via di un thriller politico vecchio stampo, scandito per l'occasione dai ritmi frenetici del nostro tempo.
Per tradurre in immagini una realtà virtuale evanescente e inafferrabile Condon si affida alle note techno e minimaliste di Carter Burwell e a un ingente lavoro di postproduzione, donando consistenza alle conversazioni in chat grazie a scritte sovraimpresse e trasformando un crash di sistema nella visione di un incendio spaventoso e orinico: l'effetto rischia di stordire come la musica troppo alta in una macchina lanciata ad alta velocità, ma su lunga corsa si concilia piuttosto bene con la costante accelerazione che attraversa la pellicola. Del tutto reali sono invece le avveniristiche architetture di Berlino, trasparenti e cristalline come il mondo sognato da Julian Assange e perfette per ospitare gli esordi di Wikileaks.
A rendere lo script claudicante è piuttosto il tentativo di affrontare il percorso umano e professionale dell'attivista australiano forzandolo ad un autoanalisi innaturale e troppo spesso fuori contesto( la sua improvvisa riflessione sull'autismo è particolarmente infelice) quando sarebbe bastato lasciare a Benedict Cumberbatch, camaleontico interprete qui alle prese con un protagonista non molto distante dalle idiosincrasie del suo acclamato Sherlock Holmes, la libertà di lavorare maggiormente in sottrazione: Julian è un personaggio sgradevole che giustifica il suo inconfondibile look creepy con una storia sempre diversa (quasi un velatissimo omaggio al sorriso del Joker del Cavaliere Oscuro di Nolan) e che tolta la maschera della Rete si rivela subito mutevole ed egocentrico, ma è anche un rivoluzionario d'altri tempi deciso a combattere la Guerra al Segreto di Stato con la sola forza delle idee e a compiere qualsiasi sacrificio per il bene della Causa.
Se i tratti più oscuri del carattere dell'uomo vengono assolti invocando un'infanzia di privazioni e solitudine, Cumberbatch regala un'interpretazione ricca ed estenuante e trova la chiave per l'umanità del personaggio in un unico incredibile sguardo, smarrito quanto quello di un bambino rimasto solo e senza amici su una spiaggia australiana, che Julian concede agli spettatori dopo aver scoperto il tradimento del suo braccio destro: in una visione surreale ma efficace, il suggestivo "mind palace"( un altro riferimento al Detective della BBC) che su una distesa di sabbia aveva ospitato gli uffici inesistenti di Wikileaks viene spazzato via e svuotato di ogni ideale, lasciando solo il triste ricordo di quella baia abbandonata tanti anni prima.
In una vicenda ancora priva di un verdetto definitivo dove il confine fra traditi e traditori è sottile al punto giusto, bilanciare le forze eleggendo il pubblico a unico giudice e garante si rivela una mossa furba e azzeccata, grazie a un intelligente finale metacinematografico che omaggia palesemente lo spirito e la missione di Wikileaks: la finzione resta tale e la verità risiede altrove, ma se avete già iniziato a porvi le domande giuste e a cercare di vostro pugno le risposte, The Fifth Estate ha senza dubbio fatto bene il suo lavoro.
il problema principale di questo film è il tentativo di far risultare assange come una figura negativa. capisco il non volerlo mitizzare però, cercando di metterlo a tutti i costi in cattiva luce, in maniera spesso molto pretestuosa, la pellicoletta finisce per darsi la zappa sui piedi.
RispondiEliminail film ha delle pecche, lo dico io stessa: è difficile analizzare una figura importante come quella di Assange e il confronto con Daniel Domsheit Berg qui non è sempre bilanciato a dovere, soprattutto per colpa della sceneggiatura. Benedict Cumberbatch, e ti assicuro non lo dico perchè di parte, fa tutto il possibile dandoci tantissimo soprattutto con gli sguardi arrabbiati e smarriti e i silenzi di Julian: quelli valgono molto più di alcune battute infelici dello script. Ad ogni modo c'è anche una scelta felicissima che è quella del finale metacinematografico, qualcosa che salva il film in quanto prodotto di finzione e che lo assolve dalle sue colpe, furbescamente ma anche con grande intelligenza.
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