martedì 13 marzo 2018

The Shape of Water


"Unable to perceive the shape of You, I find You all around me. Your presence fills my eyes with Your love, It humbles my heart, For You are everywhere..."

"Tale as old as time" cantava la canzone di Alan Menken mentre la Bella e la Bestia volteggiavano nel salone da ballo vestiti di tutto punto, decorosamente abbottonati nei loro dorati abiti finto settecenteschi: il mito della bella fanciulla innamorata di una creatura mostruosa è vecchio come il tempo e impresso nella carne dell'uomo quanto nella sua immaginazione e fantasia, forte nella consolazione dell'idea che l'amore possa prescindere dall'aspetto esteriore in nome di un oltre che anche il più cinico e disilluso non può fare a meno di bramare, nel silenzio delle notti in cui nessuno potrà mai disturbare o criticare i suoi desideri più segreti.

Un mito che non ci stanca mai e dribbla facilmente il sapore di già visto e già sentito e che ci regala un sollievo sempreverde, ma ha anche bisogno di nuova linfa per riuscire a emozionare davvero e non stagnare in una mera resurrezione del canonico, vivido e magico come lo è sempre stato sin dalle prime immagini che ci hanno trovato nell'infanzia: fra le mani di Guillermo Del Toro, guardiano di tante creature mostruose, fantasmi, freaks reietti e incompresi da un mondo che sa essere più gore e spaventoso di loro stessi, il rispetto per la diversità dei personaggi e l'importanza del messaggio sono rispettati alla lettera e non solo in The Shape of Water ( in Italia La Forma dell'Acqua), favola moderna che contrappone il suo cuore ai verdognoli Stati Uniti dei primi anni 60' e di una Guerra Fredda le cui dinamiche risultano a volte tanto assurde da sfiorare l'ilarità involontaria.

Un'esperienza non inedita per Del Toro, che ha dato il meglio di sé nello sposare il fantastico alla causa di un periodo storico e di un paese distorti con il meraviglioso Labirinto del Fauno e ancor prima ne La Spina del Diavolo, ambientati entrambi nella pasionaria Spagna durante e dopo la fine della Guerra Civile e il trionfo del Franchismo: la scena desolante di una sconfitta annunciata dove l'innocenza dei bambini offre il solo barlume di speranza possibile per continuare a combattere e andare avanti, alla ricerca di una salvezza sempre più fioca ma non ancora perduta.

Nessun sogno di bambino a portare luce nelle vite tristi e solitarie dei personaggi di The Shape of Water,  ma un qualcosa di altrettanto potente e non meno incantato e misterioso: la leggerezza di una giovane donna, privata con violenza della voce da bambina e così restituita dalle acque del fiume dove era stata gettata non si sa da chi ne perchè, una principessa senza voce che respinge il pallore delle sua vita allagando d'acqua i suoi sogni e  che a quell'acqua che così tanto le aveva tolto desidera tornare, attratta da una connessione mentale e sessuale che non ha bisogno di troppe spiegazioni.

Conosciamo Elisa e il suo caschetto nero, il look curato e la passione per le scarpe che lucida con cura ogni mattina, l'amore per i vecchi musical e lo scalpitare dei suoi piedi a colpi di tip tap prima di uscire di casa, lo sguardo dolce e assente che si perde attraverso i vetri bagnati dell'autobus che ogni giorno la porta nel laboratorio di massima sicurezza dove fa le pulizie, una fra le tante donne in grembiule verde invisibili e insignificanti agli occhi dei pezzi grossi della struttura; quasi un'Amelie Poulain di Baltimora, con tanto di amico pittore a farle da vicino di casa e confidente(via la colazione dei canottieri di Renoir e avanti con la pubblicità di famiglie bianche felici e gelatine perché questa è l'America dei sixties), immersa in un acquario interiore ricchissimo ma molto meno infantile della sua cugina francese, dimostrando sempre grande maturità e risolutezza su cosa serva alla sua felicità quanto al suo corpo.

È questo uno dei più grandi pregi dell'ultimo lavoro del regista messicano, avere avuto l'ardire di sporcare la purezza della fiaba di pulsioni sconvenienti, andare oltre il romanticismo garbato che tanto ci piace quando ciò che comanda la passione è il coraggio di esplorare la sintonia irresistibile, il groviglio inappagato di sogni e fantasie che dobbiamo seppellirci dentro e che di rado ci viene concesso di rivelare e consumare: se sono le pulsioni che ci fanno sentire vivi, la retorica e la prurigine che vorrebbero la bella abbandonarsi alla Bestia solo dopo la trasformazione in principe azzurro possono finalmente farsi da parte, mostrandoci un'eroina che si masturba quotidianamente e che si abbandona del tutto all'attrazione per il mostro perché si, la carne vuole la sua parte e a volte è meglio togliere i vestiti piuttosto che stringerli accuratamente in attesa del gran ballo.

Una storia che conosce l'attrazione e pur cedendo a qualche battuta ironica inevitabile(se ironizzare sul sesso è parte della nostra quotidianità è giusto che lo sia anche per i personaggi) riesce comunque a usarla a naturale completamento di un amore nato senza bisogno di parole, come da copione, concedendoci persino un numero musicale che superata la riluttanza inizial non risultà nemmeno così insolito, ripensando a trascorsi disneyani e non solo: con un'espressività pazzesca ben oltre quanto richiesto dal ruolo la Elisa di Sally Hawkins è la migliore principessa che potessimo desiderare, mentre la creatura interpretata da Doug Jones (alla sua ottava collaborazione con Del Toro) ci ammalia subito con le sue sfumature di verde e azzurro e una figura maschile possente , un contrasto riuscito e avvolgente con quella piccola e esile della sua amata.

Intorno a loro, un'America ossessionata dalla paura del comunismo e dalla ricerca della supremazia scientifica e militare, dall'appartenenza a una frangia sociale elitaria che si compra con beni di lusso inappaganti e dal suo stesso indisponente ottimismo: il rifiuto istituzionalizzato di ogni segno di cedimento e debolezza incarnato alla perfezione dal personaggio di Michael Shannon, colonnello implacabile e padre glaciale di una famiglia che per lui non ha alcun peso ne valore se non quello che il suo prestigioso incarico possa comprare; un figlio del suo tempo, come lo era lo spietato Capitano Vidal del Labirinto e come lui destinato alla menomazione fisica e alla deformazione, nel manifestarsi di un orrore interiore alimentato dallo spirito della Nazione.

Eppure, oltre le contraddizioni e la delusione nei confronti di una Terra che vende sorrisi smaglianti e libertà ma dietro il bancone prepara torte disgustose quanto l'ipocrisia, il razzismo e l'omofobia che troppo spesso la infestano, qualcosa di buono e del tutto americano rimane: per Del Toro, messicano acclamato ma pur sempre straniero oltre la frontiera il collante è il cinema con le sue meraviglie, il grande schermo che sotto la polvere dorata della nuova e vecchia Hollywood trova il modo di farci sospirare e intenerire anche dinanzi alla più inflazionato dei topoi narrativi, ambasciatore  a vita di inclusione e comprensione anche quando il mondo vorrebbe non vedere e non sentire.

Merito di un creatura strana, questo The Shape of Water, a cui piace immergersi in un genere per poi tuffarsi subito in un altro per incasellare citazioni su citazioni, fino a chiudere il cerchio portando i due stessi innamorati in una sala cinematografica e diventando così un grande omaggio a sé stesso: un sogno leggerissimo che neanche te accorgi, come quando ci blocchiamo a guardare le gocce di pioggia incollate al finestrino incantati dalla bellezza di quelle forme piene di luci e trasparenze infinite, o come quando ritroviamo la pace sognando di essere senza peso ne pensieri, a fluttuare nel nostro appartamento, divenuto all'improvviso più morbido e accogliente sotto una montagna d'acqua.


Oscarometro:
Per quanto annunciato da una sfilza di nomination il trionfo di The Shape of Water agli ultimi Academy Awards è stato per molti versi una vera sorpresa: nessun dubbio sulla Vittoria del comparto tecnico, di Alexandre Desplat per la colonna sonora (non una delle sue migliori ma comunque delicata e "zampillante" al punto giusto da meritarsi il premio) e Guillermo Del Toro alla regia, ma la vittoria per il miglior film tenendo presenti le tendenze e i favori che tradizionalmente investono l'Academy è stata in effetti abbastanza sorprendente. Una statuetta meritata? Certo che si, per quanto a farne le spese siano stati altri film nettamente superiori come Three Billboards outside Ebbing Missouri, altro grande favorito, e Phantom Thread, il mio preferito della tornata ma con zero possibilità. Nessuna remora per la mancata statuetta a Octavia Spencer (personaggio simpatico, ma praticamente uguale ad almeno altri due già interpretati e lodati ampiamente).

Menzione a parte, se pur non coperta da alcuna nomination, per il bellissimo personaggio interpretato da Michael Stuhlbarg, spia russa più devota alla scienza e alla sua nobiltà d'animo che alla causa comunista.



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